Investitori e cambiamento climatico: disinvestimento o engagement?


Com’è noto, le energie fossili (petrolio, carbone, gas naturale) sono le principali responsabili delle emissioni di CO2 e, di conseguenza, dei cambiamenti climatici in corso. Inoltre, numerosi studi hanno evidenziato che la maggior parte delle riserve ufficialmente accertate di energie fossili non potranno essere utilizzate, se si vuole contenere l’innalzamento delle temperature medie del pianeta entro i 2 gradi centigradi – soglia oltre la quale i fenomeni collegati ai cambiamenti climatici diventerebbero ancora più catastrofici e irreversibili.

In questo contesto, a fine 2012 è nato il movimento per il disinvestimento dalle fonti fossili (fossil fuel divestment). A partire dai campus universitari statunitensi, la richiesta di  disinvestire dalle società quotate attive nel settore delle energie fossili si è diffusa a livello globale: il 13-14 febbraio 2015 è stato organizzato il primo Global divestment day, con 450 eventi in 60 Paesi del mondo. Il movimento chiede di congelare ogni nuovo investimento nel settore, di disinvestire nell’arco di 5 anni il patrimonio a oggi investito in fonti fossili e di reinvestire le risorse così liberate in energie rinnovabili. Principale promotrice del movimento è l’associazione 350.org – nome che fa riferimento al livello di CO2 in atmosfera (350 parti per milione) da non superare per mantenere l’innalzamento delle temperature medie del pianeta al di sotto dei 2 gradi centigradi.

Tra gli investitori che si sono impegnati a disinvestire dalle fonti fossili figurano: Rockefeller Brothers Fund, Università di Stanford, Australian National University, Università di Glasgow, città di Oslo, il World council of Churches, la British Medical Association. Persino il noto quotidiano britannico The Guardian ha deciso di supportare la campagna di divestment, con la petizione Keep in the ground rivolta alla Bill and Melinda Gates Foundation e a Wellcome Trust, due tra le più grandi fondazioni a livello globale.

Tuttavia, il disinvestimento non è l’unica opzione a disposizione degli investitori che intendono limitare gli effetti connessi ai cambiamenti climatici attraverso una gestione responsabile delle risorse finanziarie. Accanto a chi decide di disinvestire, infatti, vi è anche chi sceglie la strategia dell’engagement, per esempio acquistando o mantenendo nel proprio portafoglio le azioni delle compagnie petrolifere, in modo da esercitare i diritti connessi con la partecipazione al capitale azionario e incidere così sul comportamento della società partecipata. È il caso dell’Interfaith Center for Corporate Responsibility (ICCR), che ha rifiutato di disinvestire sottolineando come sia prioritario far sentire la voce degli azionisti responsabili nei consigli d’amministrazione. Di questo avviso sono anche organizzazioni come ClientEarth e ShareAction, e la coalizione Aiming for A, tra gli organizzatori della cordata di investitori che ha ottenuto l’impegno della British Petroleum a una maggior trasparenza di informazioni rispetto all’incidenza dei rischi legati al cambiamento climatico sui conti dell’azienda (una risoluzione al riguardo è stata approvata con il 98% dei voti nel corso dell’ultima assemblea).

Disinvestimento o engagement, allora? Quali sono i punti di forza e i limiti delle due strategie, per una politica di investimento sostenibile e responsabile, che tenga conto del rischio clima? E quali le motivazioni economico-finanziarie alla base delle decisioni degli investitori? Ne parleremo il 13 maggio alla Giornata Nazionale della Previdenza, nell’ambito della nostra conferenza organizzata in collaborazione con Natixis Global Asset Management e Vigeo, che seguirà il convegno Worldwide Investing: sostenibilità e investimento responsabile, promosso da Itinerari Previdenziali, Borsa italiana e Prometeia.

Vi aspettiamo!