Donne e lavoro: la finanza scende in campo per la parità salariale


Il lavoro degli uomini vale più di quello delle donne. È ancora questa, purtroppo, la realtà che domina nel mercato del lavoro globale.

L’ultimo allarme è stato lanciato da Anuradha Seth di UNDP, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite: commentando i risultati dello studio State of the World Population 2017 dello scorso ottobre, l’esperta ONU ha evidenziato che le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Per ogni dollaro guadagnato da un uomo, quindi, una donna riceve 77 centesimi: “il più grande furto della storia”, ha denunciato Seth.

Ma i problemi non finiscono qui: la disparità salariale di genere è infatti dovuta a una lunga e articolata serie di fattori, tra cui un minore tasso di occupazione femminile, il mancato riconoscimento economico del lavoro domestico, la concentrazione delle lavoratrici in impieghi a basso reddito e una scarsa presenza di donne tra i vertici aziendali.

Da tempo governi, aziende e organizzazioni del Terzo Settore si stanno impegnando per invertire la tendenza. Per esempio, l’Islanda ha appena introdotto una norma che impone a tutti gli enti pubblici e alle imprese con almeno 25 dipendenti di verificare l’assenza di differenze salariali tra uomini e donne, a parità di mansione. L’analisi deve essere svolta ogni tre anni e sarà certificata ufficialmente dal governo; aziende e uffici pubblici inadempienti saranno multati.

Anche la finanza è sempre più attiva su questo fronte. È notizia della scorsa settimana che Citigroup è stato il primo grande istituto bancario statunitense a rendere pubblici i dati sul trattamento salariale dei propri dipendenti in base al genere. L’iniziativa è seguita all’azione di engagement condotta dall’azionista Arjuna Capital, che l’anno scorso aveva avanzato una mozione sul tema anche ai CdA di American Express, Bank of America, JP Morgan, Mastercard e Wells Fargo.

Inoltre, un numero crescente di investitori sta optando per includere nei propri portafogli le società che si distinguono per la promozione della parità di genere o, al contrario, di disinvestire da quelle che presentano standard insufficienti, con l’obiettivo di incoraggiare l’adozione di pratiche più virtuose. Per esempio, a gennaio UBS ha lanciato un fondo che investe in società attive nella promozione della parità di genere.

L’importanza della piena uguaglianza tra uomini e donne in ambito economico è stata sottolineata dal World Economic Forum nell’ultimo “Global Gender Gap Record 2017”: se il divario di genere, oggi al 58%, si riducesse al 25% entro il 2025, il PIL mondiale aumenterebbe di US$5,3 mila miliardi.

Del resto, le Nazioni Unite includono la parità di genere tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030 (SDGs), identificando tra i traguardi da raggiungere la valorizzazione del lavoro domestico, la promozione di responsabilità condivise all’interno delle famiglie e pari opportunità di leadership a ogni livello decisionale in ambito politico, economico e della vita pubblica.

Degli obiettivi ancora ambiziosi, soprattutto in alcune aree del pianeta, ma fondamentali per raggiungere quella che viene definita dall’ONU come “una condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace”.