Chi produce le nostre mascherine?
Perché è importante tutelare i diritti dei lavoratori tessili nei Paesi in via di sviluppo


Oggi ricorre il settimo anniversario dal crollo del Rana Plaza, un enorme edificio situato a Dacca, in Bangladesh, con stabilimenti tessili che rifornivano diversi grandi marchi internazionali dell’abbigliamento. Il 24 aprile 2013 un cedimento strutturale causò oltre 1.000 vittime e più di 2.000 feriti, di cui molti con invalidità permanente.

Da allora l’industria globale della moda ha intrapreso un importante percorso per ridurre gli elevatissimi impatti sull’ambiente (il 10% delle emissioni di gas a effetto serra di tutto il pianeta è causato dalla produzione di abiti) e per garantire più tutele ai lavoratori, in particolar modo agli impiegati dei laboratori nei Paesi in via di sviluppo. Molti progressi sono stati fatti, ma la strada resta in salita.

 

Il settore tessile alle prese con il coronavirus

Nelle ultime settimane, mentre il mondo è alle prese con l’emergenza sanitaria del coronavirus, il settore tessile sta affrontando nuovi problemi e gli impiegati nelle catene di fornitura sono esposti a minacce ancora più pericolose.

Anzitutto, la drastica riduzione dei consumi provocata dalla chiusura dei negozi e delle fabbriche porta i grandi marchi della distribuzione ad annullare le commesse, con pesanti ricadute economiche sulle aziende e sui laboratori nei Paesi in via di sviluppo; tagli e fallimenti comporterebbero un drammatico aumento del tasso di disoccupazione e un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle famiglie. In Bangladesh l’Associazione dei Produttori ed Esportatori di abbigliamento stima che metà della forza lavoro del settore (oltre 4 milioni di impiegati) è stata licenziata o messa in congedo.

Al contempo, le fabbriche che restano operative per fornire beni di prima necessità devono garantire il rispetto delle norme sanitarie per proteggere i lavoratori dal contagio. In molti contesti non ci sono conoscenze e strumenti adeguati per adottare queste misure.

Terzo punto: le società specializzate nella produzione di indumenti e accessori protettivi – come guanti, camici, mascherine – stanno registrando un considerevole aumento della domanda internazionale: l’intensificazione dei ritmi di produzione spesso espone i lavoratori a violazioni dei diritti e a rischi sanitari ancora più accentuati. Per esempio, a Durban in Sudafrica, è stato denunciato il caso di 14 lavoratori che sono stati chiusi a chiave per sei giorni dentro una fabbrica per aumentare la produzione di mascherine.

 

I guanti della Malesia

La testata Responsible Investor ha raccontato che in Malesia, da dove proviene il 60% delle forniture mondiali di guanti a uso chirurgico, l’ambasciatrice dell’Unione Europea ha inviato una lettera al Ministro del Commercio malese per chiedere un’intensificazione della produzione, anche considerando “opzioni creative come una produzione 24/7”. Peccato, osserva la rivista, che la missiva non sottolineasse l’importanza di tutelare la manodopera locale, soprattutto tendendo conto che in diverse occasioni negli ultimi anni – e anche in questi giornile ONG locali hanno denunciato episodi diffusi di violazione come lavori forzati, imposizione di straordinari, sequestro delle paghe e confisca di passaporti. Proprio per questi motivi anche gli Stati Uniti avevano imposto un blocco alle importazioni da uno dei principali produttori locali: il divieto è stato annullato il 24 marzo 2020 a seguito di un accertamento sul miglioramento delle condizioni lavorative.

 

Cresce l’attenzione della finanza sul rispetto dei diritti umani

Diverse iniziative internazionali stanno operando per far crescere la consapevolezza della società civile e dei governi sui rischi connessi all’emergenza coronavirus per i lavoratori tessili. La Strategia Ombra Europea per i settori Tessile, Abbigliamento, Pellame e Calzature, sottoscritta da 65 organizzazioni, ha invocato l’adozione di una strategia comune europea sulla gestione dei rischi sociali nelle catene di approvvigionamento.

Il tema della protezione dei diritti dei lavoratori nella fase di emergenza sanitaria attrae un interesse crescente da parte di numerosi investitori responsabili. Per esempio, una coalizione di oltre 100 investitori con più di $4.000 miliardi in gestione ha pubblicato una lettera in cui invita i governi a introdurre misure adeguate per verificare il rispetto dei diritti umani nei contesti lavorativi. Attraverso approcci di investimento sostenibile e responsabile, come l’engagement, gli operatori finanziari possono avviare dialoghi con le aziende investite per richiedere informazioni sulla gestione di determinati temi sociali e per incoraggiare l’adozione di pratiche più virtuose nel caso cui rilevino inadempienze o violazioni.

 

Dal Rana Plaza, il percorso verso una moda più sostenibile

Da qualche anno nel mondo della moda la necessità di tutelare il rispetto dei diritti umani nelle catene di fornitura è molto sentita dagli operatori e cattura l’interesse dei media e dell’opinione pubblica. Dallo shock scatenato dal crollo del Rana Plana sono nati la campagna “Who made my clothes” (“Chi ha prodotto i miei vestiti?”) e Fashion Revolution, un movimento internazionale che ogni anno organizza una settimana di iniziative – la Fashion Revolution Week – per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli elevati costi ambientali e sociali dell’industria dell’abbigliamento. Quest’anno la settimana si svolge dal 20 al 26 aprile in modalità digitale a causa delle limitazioni alla circolazione introdotte per fronteggiare la pandemia.

Fashion Revolution non è l’unica reazione positiva al crollo del Rana Plaza. A seguito dell’incidente sono state avviate diverse iniziative per richiedere alle aziende locali più tutele in tema di sicurezza e di salute dei lavoratori, e ai brand internazionali una maggiore responsabilità sulla verifica della trasparenza nelle catene di fornitura. Per esempio, nel 2013 e nel 2018 la Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti) ha promosso l’Accordo sugli Incendi e sulla Sicurezza degli Edifici in Bangladesh introducendo standard di sicurezza e ispezioni periodiche. L’Accordo del Rana Plaza, nato nel 2013 con la regia dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro, ha impegnato diversi marchi internazionali a corrispondere risarcimenti alle famiglie colpite dal crollo. Il Fashion Pact creato ad agosto del 2019 dai big del lusso e della grande distribuzione si focalizza sulla trasparenza delle catene di fornitura in merito ai temi ambientali.

 

Le tragedie del passato, i progressi effettuati negli ultimi anni e le criticità che ancora persistono non possono essere dimenticati. Anche e soprattutto in questa fase di emergenza globale, in cui la collaborazione tra tutti i soggetti governativi, economico-finanziari e della società civile è cruciale per salvare vite umane e traghettare il mondo verso un futuro più sostenibile.