Just Transition: non c’è sviluppo sostenibile senza giustizia sociale


Oggi, 20 febbraio, è la giornata mondiale della giustizia sociale, istituita dalle Nazioni Unite nel 2007. La giustizia sociale è fondamentale per garantire la coesistenza pacifica inter- e intra-nazionale e per la prosperità globale: rientra, infatti, tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU, che includono la riduzione delle disuguaglianze (obiettivo 10).

Quando si parla di transizione ecologica troppo spesso si fa riferimento soltanto alla dimensione ambientale della sostenibilità, ma quella sociale è altrettanto rilevante. Per questo all’aggettivo “ecologica” ne andrebbero aggiunti almeno altri due: “equa” e “inclusiva”. In inglese, l’espressione utilizzata è just transition. Significa guidare la società verso la decarbonizzazione, facendo in modo che costi e benefici della transizione siano equamente ripartiti e compensando le perdite delle categorie più svantaggiate dal processo.

Il percorso verso la neutralità climatica può infatti avere delle ripercussioni negative dal punto di vista sociale: per esempio, sulle persone impiegate nei settori che necessariamente dovranno essere ridimensionati per il loro elevato impatto ambientale, come l’industria fossile. “No one left behind”, nessuno deve essere lasciato indietro: è questo il motto della just transition. A fronte di un’eventuale perdita di posti di lavoro, si devono quindi prevedere sussidi, creando allo stesso tempo nuove opportunità occupazionali attraverso investimenti in settori come quelli delle energie rinnovabili, della mobilità elettrica, dell’agricoltura sostenibile e dell’economia circolare. Secondo un rapporto dell’International Labour Organization (ILO), la transizione verso un’economia verde causerà la perdita di circa 6 milioni di posti di lavoro, ma allo stesso tempo permetterà la creazione di oltre 24 milioni di nuovi green job entro il 2030.

Inoltre, le politiche sociali degli Stati dovrebbero tenere in considerazione il grave squilibrio tra chi inquina di più (ed è più ricco) e chi subisce in maniera più pesante gli effetti del cambiamento climatico (ed è più povero). Secondo il Climate Inequality Report 2023 pubblicato lo scorso gennaio dal World Inequality Lab, il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di quasi la metà (48%) delle emissioni di gas climalteranti, ma è esposto per appena il 3% agli effetti distruttivi dei cambiamenti climatici. Il 50% più povero della popolazione mondiale emette invece il 12% del totale dei gas a effetto serra, ma è esposto per il 75% alla perdita relativa del proprio reddito a causa della crisi climatica.

Un importante contributo alla just transition lo può dare la finanza sostenibile, favorendo l’orientamento degli investimenti verso le attività economiche in grado di generare impatti positivi (quantificabili e verificabili) dal punto di vista sia ambientale sia sociale. Tra gli strumenti finanziari a disposizione degli investitori ci sono, per esempio, i sustainability bond, ovvero obbligazioni che offrono l’opportunità di coniugare gli obiettivi economici (cioè la remunerazione dell’investimento) con quelli di sostenibilità sociale e ambientale. I proventi dei sustainability bond vengono utilizzati, per esempio, per finanziare progetti finalizzati alla riduzione della povertà e allo sviluppo di settori quali l’istruzione, la sanità, l’agricoltura e le infrastrutture in ottica di sostenibilità. Nel 2022, secondo Environmental Finance Data, il valore dei sustainability bond emessi a livello globale ha raggiunto circa $151 miliardi.

Un impulso fondamentale potrà arrivare anche dall’evoluzione del quadro normativo. La tassonomia UE delle attività eco-compatibili prevede già il rispetto di alcune garanzie minime di salvaguardia sociale: per essere definita sostenibile, un’attività economica deve essere infatti conforme alle linee guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali e ai principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani. Inoltre, sul modello della tassonomia verde, la Commissione Europea sta lavorando alla definizione di una tassonomia sociale. Tale sistema di classificazione dovrebbe identificare le attività economiche in grado di contribuire al raggiungimento di obiettivi sociali e rappresenterebbe un importante passo in avanti per aumentare la trasparenza degli investimenti sui temi legati al fattore “S”, incoraggiando gli operatori finanziari a seguire politiche di investimento orientate a una transizione giusta. Le due tassonomie, ambientale e sociale, non devono essere concepite come sistemi isolati, bensì complementari. Questo perché non si può prescindere da un modello di sostenibilità tripartita, che considera cioè le variabili economiche, ambientali e sociali profondamente interconnesse.