Azionisti, attivisti e tribunali spingono le compagnie petrolifere a ridurre le emissioni


Le iniziative degli investitori, le pressioni dei movimenti ambientalisti e le sentenze dei tribunali si stanno rivelando sempre più efficaci per spingere le aziende ad adottare condotte più sostenibili dal punto di vista ambientale. Lo dimostrano tre recenti avvenimenti legati alle multinazionali petrolifere ExxonMobil, Chevron e Royal Dutch Shell.

Nel primo caso, durante l’assemblea dei soci un piccolo azionista, supportato da grandi investitori, è riuscito a fare eleggere tre consiglieri di amministrazione dalle dichiarate posizioni ambientaliste. Gli azionisti di Chevron hanno votato in maggioranza a favore di una risoluzione che chiede alla compagnia di ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Infine, il tribunale dell’Aia ha emesso una sentenza che obbliga Shell a ridurre drasticamente le proprie emissioni di CO2 entro il 2030.

La vicenda di ExxonMobil conferma la crescente propensione degli investitori a tenere in considerazione i temi ambientali nella gestione dei rapporti con le imprese investite. La società petrolifera statunitense ha visto eleggere nel proprio Consiglio di Amministrazione tre candidati proposti dal fondo d’investimento Engine No.1, che in questo modo punta ad agire “dall’interno” per spingere la compagnia petrolifera a impegnarsi maggiormente nel contrasto al cambiamento climatico. Nonostante detenga una quota di azioni pari allo 0,02% della capitalizzazione di ExxonMobil, il fondo Engine No.1 è riuscito a ottenere questa storica vittoria grazie al sostegno di grandi società di gestione come BlackRock, Vanguard e State Street, di importanti fondi pensione americani come CalPERS e CalSTRS, e di influenti società che prestano servizi di proxy-advisory, cioè di consulenza agli investitori su come votare alle assemblee degli azionisti.

Nel caso della società petrolifera californiana Chevron, il 61% degli azionisti ha votato a favore di una risoluzione che chiede alla compagnia di ridurre le emissioni di gas a effetto serra Scope 3, ovvero tutte quelle che non sono provocate direttamente dall’attività dell’azienda (in questo caso si parla di Scope 1), né dalla produzione dell’energia acquistata (Scope 2): per esempio, sono emissioni di Scope 3 quelle generate dalla catena di fornitura o dall’uso dei prodotti. Nonostante il parere negativo del management, gli investitori hanno approvato la risoluzione, lanciando il messaggio che la dipendenza dai combustibili fossili sia controproducente anche per le performance economiche e finanziarie dell’azienda. La mozione, tuttavia, non fissa la quantità di emissioni da ridurre, né il termine entro il quale questo obiettivo dovrà essere raggiunto.

Il settore dei combustibili fossili – come carbone, petrolio e gas – è uno dei più impattanti sul clima e tra i più esposti ai rischi climatici cosiddetti “di transizione”: in altre parole, le aziende coinvolte in queste attività potranno subire perdite economiche molto elevate se non saranno in grado di innovare i propri modelli di business per stare al passo con le evoluzioni tecnologiche low-carbon e per adattarsi alle nuove norme nazionali e internazionali volte a limitare le emissioni di gas a effetto serra. Come dimostrato dai casi di ExxonMobil e Chevron, per mitigare questi rischi gli investitori ricorrono sempre più spesso (e sempre più efficacemente) alla strategia SRI dell’engagement. Nei casi delle due compagnie petrolifere, in particolare, gli investitori hanno fatto ricorso a pratiche di azionariato attivo, che includono la presentazione di mozioni durante le assemblee e l’esercizio del diritto di voto.

Anche azionisti e tribunali possono avere un ruolo incisivo nella transizione dell’economia. È successo con la sentenza contro Shell emessa da una corte olandese in seguito alla causa intentata nel 2019 da una coalizione di sei organizzazioni ambientaliste e da oltre 17.000 cittadini. La società anglo-olandese, accusata di non fare abbastanza per allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, sarà costretta a ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 45% rispetto ai livelli del 2019, anno in cui hanno raggiunto il massimo storico. L’obbligo si riferisce all’intero portafoglio energetico di Shell e al volume aggregato di tutte le emissioni, comprese quelle di clienti e fornitori. Nonostante sia legalmente vincolante solo nei Paesi Bassi, questa sentenza ha una portata storica perché potrebbe rappresentare un precedente per intentare cause simili in altre parti del mondo. Inoltre, dimostra come l’Accordo di Parigi possa influenzare direttamente la giurisprudenza.

I tre casi sono esemplificativi di un processo più ampio, in cui gli investitori sono disposti a esporsi pubblicamente e a impegnare tempo e risorse in engagement e/o azionariato attivo affinché le società investite assumano impegni concreti per fronteggiare la crisi climatica e per proteggersi dai suoi rischi. Anche i gruppi ambientalisti, sempre più spesso appoggiati dalle sentenze dei tribunali, potranno rafforzare il loro ruolo nel processo di transizione.